La responsabilità individuale dei ministri tra il caso Mancuso e il caso Speranza

Se guardiamo a come è cambiata nel tempo la posizione dei membri del governo in relazione ai partiti politici e la responsabilità individuale dei ministri nel rapporto di fiducia con il Parlamento, possiamo comprendere per quali ragioni l’istituto della mozione di sfiducia individuale compare soltanto alla metà degli Anni Novanta e come mai ad oggi ha avuto successo una sola volta, nonostante il massiccio utilizzo che se ne sta facendo negli ultimi anni.

Nella Prima Repubblica le compagini di governo si reggevano su un equilibrio precario, frutto di faticose trattative tra correnti in seno alle segreterie dei partiti; i governi nascevano e morivano soprattutto a Piazza del Gesù nella sede nazionale della Dc e la sostituzione di un ministro o il rimpasto di un governo erano oggetto di compromessi correntizi.

Vigeva poi una prassi per la quale il ministro in carica non rassegnava le proprie dimissioni solo nei casi di responsabilità soggettiva, come fu nel caso di Sarti (governo Forlani) per la sua domanda di adesione alla loggia P2,  ma anche nei casi di mera responsabilità oggettiva, come Lattanzio (governo Andreotti III) in seguito alla fuga di Kappler dal Policlinico militare del Celio o anche Cossiga (governo Andreotti IV) dopo il ritrovamento del cadavere di Moro.

Allo scandalo o al fallimento politico-amministrativo di una certa gravità seguivano le dimissioni, anche laddove non fosse rinvenibile una diretta responsabilità del ministro. Con il passaggio alla Seconda Repubblica e al maggioritario si assiste a un mutamento sia nel rapporto tra Governo e Parlamento sia nei rapporti in seno all’esecutivo stesso tra il Presidente del Consiglio e i suoi ministri.

Nonostante la Corte costituzionale abbia ribadito la natura del Presidente del Consiglio quale primus inter pares, considerando impossibile ravvedere una sua formale preminenza rispetto ai ministri (sent. 262/2009), si è discusso a lungo sulla necessità di attribuire al Presidente del Consiglio il potere di revocare i membri del suo governo, alla stregua di quanto accade in altri Paesi con forma di governo parlamentare come il Regno Unito e la Germania.

Non è un caso che tutti i progetti di riforma costituzionale presentati nell’ultimo trentennio, che intervenivano sul titolo III relativo al Governo, riconoscevano tale potere di revoca al Presidente del Consiglio.

Questa mancata innovazione dell’ordinamento costituzionale è una delle ragioni del ricorso sempre più frequente all’istituto della mozione di sfiducia individuale a partire dagli Anni Novanta.

Se un ministro rifiuta di adeguarsi all’indirizzo collegiale del governo e a quello della maggioranza che lo sostiene e al contempo non intende dimettersi, la mozione di sfiducia individuale costituisce l’unica possibilità per rimuoverlo dal suo incarico. È questo il caso di Filippo Mancuso, Ministro della Giustizia del governo Dini, che fu sfiduciato dal Senato su iniziativa del suo stesso governo che si rimise all’Assemblea dal momento che il ministro non intendeva dimettersi spontaneamente. Si tratta invero dell’unico caso in cui è stata approvata una mozione di sfiducia individuale, probabilmente per il concorrere di due elementi che non si sono poi ripresentati nelle vicende successive: la natura “tecnica” del ministro, indipendente dalle forze politiche, e soprattutto il sostegno del governo alla sfiducia individuale.

Gli studi parlamentari più recenti hanno individuato le motivazioni per cui la mozione di sfiducia individuale riscontra una maggiore possibilità di successo se rivolta verso ministri cosiddetti indipendenti:

  • in primo luogo il ministro tecnico è più restio ad adeguarsi ad una linea politica di maggioranza dal momento che spesso considera la sua nomina come un riconoscimento per la sua competenza e non vede nel rapporto di fiducia con il Parlamento la fonte che legittima il suo incarico;
  • in secondo luogo poi il ministro tecnico non ha solitamente alle sue spalle l’appoggio di una forza politica e parlamentare che, in caso di sfiducia, può minacciare una crisi di governo o comunque rivendicare una qualche forma di compensazione per la perdita subita.

Se pensiamo alle mozioni di sfiducia verso singoli ministri presentate, discusse e votate nella presente legislatura, come i casi dei ministri Toninelli e Bonafede e in ultimo il caso del ministro Speranza, non riscontriamo nessuno di questi elementi trattandosi di parlamentari (non tecnici), sostenuti dalle rispettive forze politiche, e addirittura leader di partito (il ministro Speranza è il leader di Liberi e Uguali).

Se dunque è ormai chiaro che questo istituto presenta buone chance di riuscita solo quale extrema ratio per la rimozione di un ministro sgradito, in alternativa alla mancata introduzione del potere di revoca, ovvero nei casi di ministro “tecnico” senza appoggio di una forza parlamentare, la presentazione di mozioni di sfiducia individuale, prive di ogni velleità di successo, sono allora giustificate da ragioni politiche nascoste e indirette, ben lungi dal semplice tentativo di rimuovere un ministro.

Si tratta in conclusione di uno strumento ambivalente, da un lato funzionale alla propaganda politica delle forze di opposizione, dall’altro lato però è andato via via assumendo una connotazione del tutto atipica e inaspettata, evidentemente connessa alla convivenza innaturale di forze politiche molto diverse, in certi casi addirittura antitetiche, nel medesimo governo. Il voto della Lega e di Forza Italia in difesa del Ministro Speranza potrà rivelarsi in tal senso un utile credito da far valere con gli altri azionisti di maggioranza quando sarà il momento opportuno.

Marco Bachetti*

*Direttore organizzativo Centro Studi Articolo 46, scrittore a tempo perso, cultore della storia costituzionale d’Italia, si occupa di studi politici e istituzionali.

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