Un Premier al Quirinale, tra suggestione e realtà: cosa dicono la Costituzione e le leggi

«Se il premier Mario Draghi si presenterà come candidato Presidente della Repubblica lo sosterremo convintamente.»

Con questo endorsement pochi giorni fa il leader della Lega Matteo Salvini ha ufficialmente aperto le manovre in vista della partita politico-istituzionale più importante del secondo semestre 2020: la scelta del successore di Mattarella al Quirinale.

Il settennato iniziato nel 2015 scadrà il 3 febbraio 2022 e, ai sensi dell’art. 85, secondo comma, della Costituzione, trenta giorni prima della scadenza del termine il Presidente della Camera dei deputati convoca il Parlamento in seduta comune, integrato per l’occasione dai 58 delegati regionali (tre per ciascuna Regione, ad eccezione della Valle d’Aosta che ne esprime solo uno), al fine di procedere con l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica.

Facendo due calcoli rapidi, dovrebbe dunque essere gennaio 2022 il mese della designazione del futuro Capo dello Stato. L’ipotesi Draghi si sta facendo largo silenziosamente, senza troppi clamori, salvo qualche dichiarazione estemporanea come quella del segretario leghista; a pensarci bene Draghi al Quirinale sembra essere l’epilogo naturale, quasi scontato, della vicenda, che per certi versi assomiglia moltissimo a quella che ha portato lo stesso Draghi a Palazzo Chigi. Da quando nell’autunno 2019 ha lasciato la Presidenza della Bce, il nome di Draghi è stato evocato, caldeggiato, sussurrato, specialmente dopo lo scoppio della pandemia, come un’ombra che ha prima seguito e infine assorbito il suo predecessore Conte, quasi abbandonato ad un ineluttabile destino.

Draghi a Palazzo Chigi per aprirgli la strada verso il Colle. Quante volte lo abbiamo letto tra le righe di un articolo e sentito bisbigliare! Non è una semplice suggestione né una forzatura giornalistica ma potrebbe rivelarsi una necessità politica, in ragione dei circa 200 miliardi, tra prestiti e sovvenzioni, che nei prossimi sei anni arriveranno dall’Europa. Serve una figura di garanzia per rassicurare Bruxelles e negli ultimi anni il Presidente della Repubblica - non solo Mattarella ma anche i suoi predecessori - ha svolto il ruolo di principale garante dell’irreversibile e indiscussa partecipazione italiana all’Unione europea (ricordate il caso Savona?).

Nessuno pare più adatto di Draghi ad adempiere a questo compito. Chiunque vincerà le prossime elezioni politiche e si troverà a governare il Paese, non sarà avvertito come una reale minaccia da Bruxelles con l’ex Presidente della Bce seduto al Quirinale. Veniamo adesso però alle complicanze procedurali, che incuriosiscono gli appassionati di diritto costituzionale e più in generale dei meccanismi che regolano gli avvicendamenti istituzionali.

Non è finora mai accaduto che un Presidente del Consiglio dei ministri in carica fosse eletto Presidente della Repubblica. La Costituzione non ci viene direttamente in aiuto però ci fornisce un’indicazione importante: “l’ufficio di Presidente della Repubblica è incompatibile con qualsiasi altra carica” (art. 84, secondo comma). È dunque chiaro che prima di entrare in carica come Presidente della Repubblica, Draghi dovrebbe lasciare il suo attuale incarico.

Fin qui nulla di nuovo poiché più volte nella storia repubblicana è accaduto che, dopo la proclamazione da parte del Parlamento in seduta comune, passassero alcuni giorni prima dell’insediamento ufficiale per consentire al neoeletto di dimettersi dai suoi incarichi di giudice costituzionale (Mattarella), ministro (Saragat, Ciampi) o anche Presidente di una delle due Camere (Gronchi, Cossiga, Scalfaro). Mai però è accaduto con un Presidente del Consiglio. Cosa si fa in questi casi? La legge 400 del 1988 sull’ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri all’articolo 8 disciplina i casi di assenza o impedimento temporaneo del Presidente, attribuendo la supplenza al Vicepresidente del Consiglio ovvero, nei casi in cui questi non sia stato nominato come nel governo Draghi, al ministro più anziano secondo l’età (ad oggi il ministro Renato Brunetta, 70 anni).

Non sembra però essere configurabile come supplenza l’ipotesi in oggetto dal momento che Draghi sarebbe tenuto a dimettersi dal suo attuale incarico, prima di giurare sulla Costituzione dinanzi al Parlamento in seduta comune ed entrare in carica come Presidente della Repubblica. Non può esservi supplenza pro tempore da parte del ministro più anziano, dal momento che il titolare dell’ufficio non si assenta temporaneamente (come nel caso di una malattia) ma deve rassegnare le dimissioni, lasciare l’incarico, prima di immettersi nell’esercizio delle sue funzioni di Presidente della Repubblica.

Proviamo allora a ipotizzare un percorso, costituzionalmente compatibile, per questo intricato groviglio istituzionale:

  1. Proclamazione del nuovo Presidente della Repubblica Mario Draghi da parte del Parlamento in seduta comune;
  2. Dimissioni di Mario Draghi da Presidente del Consiglio presentate all’attuale Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il quale le accetta con la consueta formula (invitando il Governo a restare in carica “per il disbrigo degli affari correnti”);
  3. Brevi - anche una sola giornata - ma obbligatorie consultazioni svolte dal Presidente Mattarella per sondare gli orientamenti delle forze politiche parlamentari;
  4. Conferimento dell’incarico a formare un nuovo governo ad una personalità terza, verosimilmente un ministro dello stesso governo Draghi;
  5. Formazione del nuovo governo - presumibilmente con la medesima o quasi composizione del governo Draghi - e giuramento nelle mani del Presidente Mattarella;
  6. Giuramento sulla Costituzione del nuovo Presidente della Repubblica Draghi dinanzi al Parlamento in seduta comune;
  7. Costituitosi il nuovo governo ed insediatosi Draghi al Quirinale, le forze politiche potranno decidere se votare la fiducia al nuovo governo o meno;
  8. Nel caso in cui il Parlamento scelga di non votare la fiducia al nuovo Governo, il nuovo Presidente della Repubblica Draghi può valutare lo scioglimento anticipato delle Camere e la convocazione di nuove elezioni politiche. In tal caso il governo, già formatosi all’atto del giuramento, resterebbe in carica “per il disbrigo degli affari correnti”.

Marco Bachetti*

 

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